Monday 16 November 2009

Herculaneum letter in the Giornale dell'Arte: the official response

Last week a letter that had been published in the Giornale dell'Arte on the state of Herculaneum was posted. Here below I give the official response to that letter that will be published in the next edition:



Signor Direttore,

Le sarei molto grata se volesse dare spazio a una mia replica a quanto denunciato dal Signor Luigi Acone a p. 52 del n. 292/Novembre 2009 de “Il Giornale dell’arte” (Opinioni & Documenti. Il Giornale dei detective dell’arte: La desolazione di Ercolano; pagina realizzata con la collaborazione diretta dei lettori e degli aderenti al FAI).

Nel leggere l’apocalittica descrizione che degli scavi di Ercolano fornisce il Signor Acone il primo dubbio che sorge spontaneo riguarda la collocazione spazio temporale della degradata realtà che egli racconta: di quali scavi sta parlando? o anche, in quale anno li ha visitati in tali condizioni?

Lo scenario, reale e documentabile, che si dispiega agli occhi di qualsiasi visitatore dell’anno 2009, mese di Novembre (ma anche del 2004), è infatti ben diverso da quello di desolazione e incuria che egli tratteggia: “…quasi tutte le antiche case sono sporche, con fango sul pavimento; l’umido e la muffa intaccano forse irreparabilmente le strutture. Tutte le pitture parietali presenti nel sito sono state deturpate profondamente da incisioni di vandali… polvere, sporco, muffe e altro. Tante case sono quasi completamente distrutte, scoperchiate ed è chiaro che ciò è avvenuto di recente e non ad opera delle ceneri vulcaniche che le hanno sepolte e conservate bene. Per terra si possono vedere i frammenti delle pareti e dei soffitti crollati. Per visitare gli ambienti bisogna attraversare erbacce che arrivano fin al ginocchio…. spazzatura depositata sui vetusti pavimenti”. Il sito sarebbe inoltre pieno di vecchie impalcature ossidate, allusive a restauri mai compiuti. E ancora: “la galleria che conduce all’uscita è fredda, umida, lugubre e a tratti maleodorante…. e all’uscita dal percorso si osserva la spiaggia che anticamente affiancava Herculaneum. Su questa arena, un enorme (sic!) pompa getta tonnellate di acqua per tenerla umida, producendo tuttavia anche un bel po’ di muffa e fango…”. Il Signor Acone dichiara poi di essere a conoscenza del fatto che nell’anno 2000 alcuni studiosi americani preoccupati hanno avviato in collaborazione con la Soprintendenza una buona risistemazione di diverse case, ma sarebbe lampante ai suoi occhi che ciò è avvenuto solo per pochissime strutture, mentre la grandissima parte del sito sarebbe abbandonata.

Che dire? Lo stato di abbandono dipinto a tinte fosche dal Signor Acone è così lontano dalla realtà attuale che si stenta a credere che egli abbia realmente visitato personalmente gli scavi in tempi recenti; ha piuttosto il sapore di un’antologia di luoghi comuni, gettati alla rinfusa sul tappeto. “Tutte o quasi tutte le antiche case” egli dice: elenchi, per cortesia, uno per uno gli edifici il cui pavimento è sporco di fango; quelli il soffitto e le pareti dei quali mostrerebbero i loro crolli a terra, quelli in cui l’erba sarebbe alta fino al ginocchio; elenchi tutte le pitture deturpate dai vandali. E la pompa che getterebbe tonnellate di acqua sull’antica spiaggia per tenerla umida, contribuendo a produrre muffe e fango? Forse il Signor Acone non sa che, per effetto dell’eruzione del 79 d.C. il piano della costa antica è sprofondato di circa 4 metri al di sotto dell’attuale livello del mare e per questo motivo, ogni volta che con lo scavo archeologico si raggiunge la quota della spiaggia antica, si ha l’affiorare dell’acqua di falda; le pompe idrovore, costose e perennemente in funzione, che egli ha visto o sentito in azione, non sono dunque certo lì per gettare tonnellate di acqua per tenere umida la zona, bensì per captarla, sollevarla e allontanarla dal sito, in parte riutilizzandola per l’irrigazione dei giardini, in modo da compensare gli enormi costi di energia elettrica con il risparmio di quelli idrici a servizio dell’area archeologica.

Piuttosto singolare e destituita di ogni fondamento storico e archeologico è poi l’idea che le ceneri vulcaniche avrebbero sepolto e conservato perfettamente gli antichi edifici (che ci sarebbero dunque giunti integri?) e che pertanto la mancanza di tetti e il vario livello di distruzione delle murature sarebbe solo conseguenza della perdurante e progressiva incuria, quando è a tutti noto che lo scenario che gli scavi ercolanesi hanno svelato è quello di una catastrofe appena compiuta, ma pazientemente, e per quanto possibile, ricomposta sulla base di oggettivi dati di scavo.

Di fronte a una così palese distorsione della realtà, fortemente in contrasto per altro con le diffuse positive attestazioni che pervengono da quanti, per motivi di studio o semplicemente di appassionato e fedele turismo, hanno avuto modo di visitare gli scavi ripetutamente negli ultimi tre o quattro anni, constatando nel complesso un indubbio, oggettivo miglioramento delle condizioni generali del sito, non si può che rimanere sconcertati.

Come è noto, e come chiunque può osservare, il parco archeologico ercolanese contiene una considerevole quantità di strutture e manufatti. Si tratta di una porzione della città antica non immensa come Pompei, ma certamente cospicua, la cui conservazione richiede risorse finanziarie ingenti che nelle supreme sedi decisionali non si è mai potuto assicurare in modo proporzionato alle effettive esigenze. La mancanza di regolari interventi di restauro e di manutenzione ha perciò determinato nel tempo una grave e diffusa condizione di degrado alla quale questa Soprintendenza, a partire da quando ha potuto beneficiare dell’autonomia finanziaria (1998), ha tentato di porre rimedio. L’impegno della conservazione della città antica non può essere assolto con le sole forze economiche ed operative della Soprintendenza e perciò negli ultimi anni sono state tentate altre strade, nel rispetto di quanto previsto e consentito dalla legislazione italiana in materia di Beni Culturali. Negli Scavi di Ercolano, durante gli ultimi otto anni sono stati realizzati grandi progetti finanziati dalla Comunità Europea attraverso la Regione Campania (POR 2000-2006), che hanno sensibilmente migliorato il quadro generale del sito: penso in particolare alla stabilizzazione della scarpata nord; alla realizzazione del nuovo ponte di ingresso agli scavi; a quella del magnifico parco attrezzato nel Nuovo Ingresso; agli impegnativi lavori a Villa dei Papiri, che hanno risanato un’area consegnata alla Soprintendenza 10 anni fa in condizioni a dir poco disastrose; al restauro e alla musealizzazione della Barca romana. Ma oltre a questi lavori, i cui risultati sono piuttosto appariscenti, è in corso da alcuni anni (e in particolare dall’autunno del 2004) una vasta campagna di lavori di urgenza e di manutenzione per la stabilizzazione delle strutture archeologiche e degli apparati decorativi. L’obiettivo è quello di rallentare le situazioni di degrado avanzato e contemporaneamente di agire puntualmente sulle cause che lo hanno determinato e che ancora lo determinano e di conseguenza rendere il sito di nuovo gestibile con una rigorosa manutenzione programmata. Questi lavori, che seguono un razionale programma di interventi scaturito dal censimento completo del patrimonio e delle sue condizioni di degrado, vengono eseguiti nell’ambito dell’Herculaneum Conservation Project, un ampio programma di conservazione, di ricerca e di valorizzazione di tutto il sito archeologico (non solo dunque “alcune case”) condotto in stretta collaborazione fra la struttura tecnica e scientifica della Soprintendenza, il Packard Humanities Institute che finanziariamente sostiene il progetto, e la British School at Rome che attraverso un contratto di sponsorizzazione attua il progetto: cosa ben diversa, molto più articolata e strutturata e dagli effetti oltremodo evidenti rispetto alle poche sistemazioni che con un po’ di buona volontà un manipolo di “studiosi americani preoccupati” avrebbe realizzato “nei primi anni 2000”. I riconoscimenti a questo progetto sono giunti sia dal Ministero, sia dalla comunità internazionale che lo ha indicato come un esempio di “best practice” di conservazione archeologica (cfr. ad esempio C. Avvisati in “Il Giornale dell’Arte” n. 241/marzo 2005, p. 1 e p. 7 e n. 255/Giugno 2006, p. 49, e Conservation and management challenges in a public-private partnership for a large archaeological site - Herculaneum, Italy, in “Conservation and Management of Archaeological Sites” 8.4, 2007, edizione speciale sugli Scavi di Ercolano).

Le critiche e le segnalazioni meritano sempre la più alta considerazione perché spronano a fare sempre meglio e sempre di più, ma se si osservano e si valutano obiettivamente gli Scavi di Ercolano l’impressione generale è esattamente opposta a quella svelata dal lettore: un sito finalmente sotto controllo, ricondotto a un livello già accettabile di conservazione, con molte zone riaperte al pubblico e tante in cui il degrado è stato arrestato (con la stabilizzazione degli apparati decorativi e il risanamento delle coperture), anche se non è ancora possibile restituirle al godimento pubblico perché bisognose di restauri più profondi per reggere l’impatto dell’usura turistica. La cronica carenza di custodi, destinata per altro a peggiorare ulteriormente di anno in anno, è un problema concreto e doloroso nonché non secondario motivo di chiusura di taluni edifici, benché potenzialmente fruibili, ma l’immagine di uno scavo totalmente incustodito e in mano ai vandali che deturpano indisturbati le pitture è irrealistica: al di sotto di un certo numero di unità presenti in servizio non si può neppure procedere all’apertura degli scavi al pubblico. Fango sui pavimenti delle antiche domus, strutture crollate a terra, immondizia disseminata qua e là ed erbacce alte fino al ginocchio per accedere agli edifici neanche a parlarne.

Molto è stato fatto, ma molto altro ancora resta da fare nella piena consapevolezza che la conservazione di questa risorsa unica e irripetibile che è il nostro patrimonio archeologico è un’operazione senza fine che richiede costanza e continuità nella gestione e negli investimenti. Noi ci stiamo provando; la strada è lunga e tortuosa, ma i risultati si vedono; non riconoscerlo non è nemmeno ingeneroso: è semplicemente non rispondente al vero.

Maria Paola Guidobaldi (Direttore degli Scavi di Ercolano-Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei)

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